martedì 26 giugno 2012

Maria Serena Felici traduz conferência de Mia Couto para "Linea di Frontiera"

http://lineadifrontiera.com/2012/06/20/dalla-cecita-collettiva-allapatia-mia-couto-prima-parte/
http://lineadifrontiera.com/2012/06/25/dalla-cecita-collettiva-allapatia-mia-couto-seconda-parte/



A nossa aluna e colaboradora neste blogue, MARIA SERENA FELICI acaba de publicar a sua segunda tradução para o blogue de literatura espanhola e portuguesa "lineadifrontiera".

Escreve-nos a jovem tradutora:
"Trata-se duma conferência de Mia Couto, e é realmente iluminante. Acho que saiu melhor do que a primeira, o que me deu para refletir sobre o trabalho de tradução: gostei tanto deste texto, senti aquelas palavras como palavras minhas, como um discurso que eu mesma poderia ter feito, e desejei profundamente poder transmiti-lo aos leitores italianos que, sem tradução, não teriam acessoa esse texto. Penso que a tradução deve ser isso mesmo, pois o que é preciso em qualquer situação é acreditar profundamente no que se faz."

MUITOS PARABÉNS à Maria Serena e o nosso sentido BEM-HAJA por partilhar conosco as suas reflexões e esta belíssima tradução.



Dalla cecità collettiva all’apatia
Mia Couto
Traduzione di Maria Serena Felici



Vorrei innanzi tutto rendere omaggio agli insegnanti.


Per anni e anni sono stato insegnante. E quando dico questo provo un’emozione fortissima. Non so se esista una professione più nobile di quella dell’insegnante; e dico insegnante perché c’è una bella differenza tra insegnare e trasmettere nozioni. L’insegnante che merita veramente il nome di maestro è colui che insegna.

Gli insegnanti che più hanno lasciato il segno nella mia vita sono stati quelli che andavano ben al di là delle semplici materie scolastiche. Non dimenticherò mai un maestro delle elementari che un giorno ci lesse, visibilmente emozionato, un suo testo. Sin da quando ci comunicò questa intenzione rimanemmo stupiti: di solito eravamo noi alunni a scrivere temi e a leggerli poi ad alta voce affinché lui li correggesse. Com’era possibile che quell’uomo si prestasse a quell’inversione di ruoli? Com’era possibile che accettasse di fare qualcosa che di norma fa solo chi sta imparando?

Lo ricordo come se fosse ieri: il maestro era un uomo molto alto e magro e, quel giorno, salì sulla predella tenendo tra le mani tremanti un quaderno. Era come se si fosse improvvisamente trasformato in un bambino spaurito durante un’interrogazione. Sembrava l’albero maestro di una nave, solitario e in balia delle intemperie. Solo la sua passione avrebbe potuto soccorrerlo.

Quando poi annunciò il titolo del tema, il nostro stupore giunse al culmine per quanto era semplice, quasi infantile: il maestro ci avrebbe parlato delle mani di sua madre. Eravamo bambini e ci sembrava così strano che un adulto, tanto più un maestro, condividesse con noi quel tipo di sentimento… Quando poi iniziò a leggere, lo stupore lasciò il posto a qualcosa di più grande: parlava di sua madre come io avrei potuto parlare della mia. Anch’io avevo conosciuto quelle stesse mani segnate dal lavoro, raggrinzite per la durezza della vita, che mai avevano sperimentato il balsamo d’un cosmetico. Il testo non si chiudeva con artifici letterari. Terminava semplicemente così, lo cito a memoria: “Vorrei dirti questo, mamma: dirti che sono orgoglioso delle tue mani incallite, e vorrei dirtelo adesso che posso solo ricordare la dolcezza dei tuoi gesti per sempre.”

C’era qualcosa di profondamente autentico in quel testo, che lo rendeva diverso da quelli del nostro libro di scuola. Perché non allegava una morale edificante, proclamata come una rivelazione sacra, esibita come uno stendardo. Quel momento non fu una lezione qualunque, fu un’esperienza di vita che interiorizzammo come avviene con le esperienze più significative: si impara senza rendersi conto che si sta imparando. Ricordo questo episodio come un omaggio a tutti gli insegnanti, a questi lavoratori pieni di zelo che ogni giorno si adoperano tanto per il futuro del nostro Paese.

Ho cominciato dagli insegnanti, e forse può sembrare che stia dimenticando gli alunni, o che li voglia mettere in secondo piano. Ma non è così.

Siamo tutti insegnanti, seppure inconsapevolmente. Per gli altri, per i nostri genitori, per gli amici, per noi stessi, con esempi buoni o cattivi, con esperienze tristi o piacevoli, tutti siamo insegnanti. Uno dei più grandi insegnanti del nostro tempo è un uomo che non si è mai seduto in cattedra. Un uomo che ci ha insegnato ad essere più umani, un uomo che ha insegnato ad avere speranza in un mondo disperato. Questo maestro di tutta l’umanità, di ogni razza e religione, è un africano e si chiama Nelson Mandela. La sua vita è stata un continuo insegnamento. Mandela è oggi un simbolo mondiale non solo perché, come politico, ha restituito dignità alla politica, ma anche perché ha restituito dignità a noi tutti esseri umani.

Lasciate che parli un po’ di Mandela. Quest’uomo, oggi ammalato e affaticato, ha trascorso ventisette anni in carcere. Ventisette anni significa più dell’intera vita della maggior parte delle persone qui presenti. In ventisette anni di prigione possono nascere rabbia, odio e insuperabili rancori; e invece lui ha trasformato questa potenziale negatività in una straordinaria forza costruttiva e riconciliatrice. Un grande stimolo gli venne da una poesia che si intitola “Invictus”, che ora leggerò.

Invictus

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come il pozzo senza fondo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio possa esistere
Per la mia anima indomabile.
Nella stretta morsa delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato
Sotto i colpi avversi della sorte
Il mio capo sanguina, ma non si china.
Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l’orrore dell’ombra
Eppure, la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.

Questi versi, cari amici, sono stati il supporto morale che ha dato la forza a Nelson Mandela. Molte volte il detenuto 46664 della prigione di Robben Island li ha ricordati per non soccombere. In qualità di poeta e scrittore, mi dà una grande gioia sapere che la poesia ha questo potere. Una piccola curiosità a proposito di questa poesia: in realtà, fu scritta nel 1875 e il suo autore non solo non era sudafricano, ma non era neanche africano. Si chiamava William Ernest Henley ed era inglese. Questi versi hanno viaggiato attraverso i secoli e i continenti, e hanno illuminato le speranze di un uomo che, invece di compiangersi e cercare vendetta, ci ha offerto un’intramontabile lezione di fiducia nel prossimo.

Mi sono soffermato su questi episodi perché siamo alla Facoltà d’Arte e Comunicazione e io sono convinto che l’arte e i mezzi di comunicazione possano essere importanti tanto quanto la politica per il rinnovamento culturale. Mandela, in un Paese come il suo, così diviso dai pregiudizi, ha fatto della politica uno strumento di verità e riconciliazione. E probabilmente la cultura è il più potente e duraturo veicolo di giustizia sociale. In Africa questo è evidentissimo. Solo un esempio: da cinquant’anni a questa parte, e cioè dalle prime indipendenze, nel nostro continente si sono succeduti più di 210 presidenti. Ora io vi chiedo: citatemene dieci, solo dieci, che si siano distinti per le loro qualità umane. Sarà un’impresa ardua. È molto più facile elencare artisti e intellettuali degni di memoria. Per questo la figura di Mandela è così importante per noi africani: possiamo non ricordare molti politici importanti, ma il nome di Mandela è sufficiente per colmare questo vuoto e restituirci l’orgoglio di essere ciò che siamo.

Cari amici, passerò ora al tema centrale di questa conferenza.

Ogni giorno, centinaia di furgoni a cassone aperto transitano per le vie di Maputo, città che poco ricorda il motto che la vuole “bella, fiorente, pulita, sicura e solidale”. Ciascuno di questi furgoni circola zeppo di persone stipate l’una contro l’altra, in un equilibrio insicuro e precario. Quello dovrebbe essere un mezzo di trasporto. Ma non lo è. È un crimine ambulante. È un attentato contro la dignità, una bomba a orologeria contro la vita umana. In nessun Paese del mondo sarebbe tollerata una cosa simile. Gli animali, le bestie si trasportano così, non le persone. Il problema è che per molti di noi questi attentati contro il rispetto e la dignità ormai sono entrati a far parte della normalità. Li troviamo ingiusti, ma accettiamo che si tratti di mali necessari data la mancanza di alternative. L’abitudine a ciò che è inammissibile genera un rischio: a poco a poco, quello che prima appariva ingiusto finisce per sembrare normale. E la momentanea rassegnazione si trasforma in accettazione definitiva. Prima o poi finiamo col dire: “Siamo fatti così, noi mozambicani”. Così dicendo, ammettiamo di essere limitati, incapaci e indegni di rispetto.

Quella dei furgoni non è che un’immagine esemplare del processo che io chiamo “causare l’inevitabile”. È semplice: a poco a poco, i passeggeri del furgone non vengono più notati. In una società come la nostra contavano già poco, gente povera, senza volto, gente che non appare in TV o sui giornali. Apparirà sui giornali quando il furgone si ribalterà: ma non avrà una voce, né un nome. Sarà un semplice numero usato per contare morti e feriti. In compenso, altre cose hanno guadagnato visibilità nel nostro Paese: ad esempio le auto di lusso, ostentate da una ristretta minoranza, quelle che ci fermiamo a guardare per strada, mentre ignoriamo i furgoni dei poveri mortali.

Ciò di cui volevo parlare oggi è questo meccanismo che banalizza l’ingiustizia e rende invisibile la miseria materiale e morale. Questa assuefazione non fa altro che perpetuare la povertà e paralizzare la storia. Usciamo di casa tutti i giorni per produrre ricchezza eppure ritorniamo più poveri di prima, più stanchi, senza idee, senza speranza. A forza di lasciarci banalizzare dagli altri finiamo per banalizzare noi stessi la nostra vita.

Stiamo vivendo una sorta di “formattazione” mentale e morale. Il messaggio che ci vogliono trasmettere è che la nostra “malattia sociale” è incurabile, e che non ci resta che vivere di stenti o espedienti.

Un giorno è venuto a trovarmi un amico scrittore dalla Nigeria. Ha visitato alcune città del Mozambico e mi ha telefonato da Pemba. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Non ci posso credere! Voi avete distributori di benzina che funzionano!” Un tale stupore mi ha meravigliato, soprattutto perché a parlare era un nigeriano, il cui Paese è il maggiore produttore africano di petrolio. Solo più tardi ho capito. È che le città nigeriane, dopo cinquant’anni di esportazioni di greggio, non possiedono quello che per noi è normalissimo: pompe di benzina che vendano benzina. I distributori sono quasi tutti chiusi e la benzina è venduta in bottiglie e taniche nei parchi pubblici. Per alcuni questo è normale in Africa; e invece non lo è. Il fatto è che il governo ha stanziato dei fondi per calmierare il prezzo dei carburanti, ma a guadagnarci non sono stati i più bisognosi: è stata una parte dell’élite nigeriana che si è impossessata dei circuiti formali, indirizzando verso quelli informali la distribuzione della benzina. Per l’ennesima volta, dunque, i ricchi sono diventati ancora più ricchi. Ma il punto qui non è la politica. Il punto è che il cittadino nigeriano quel sistema di vendita, come il dumba-nengue [1], lo considera normale. Vedere distributori di benzina che funzionano normalmente in un Paese molto più povero come il Mozambico, per il mio amico è stata una grande sorpresa. Io sento dire da molti africani che il mercato nero è l’unico modo per commerciare in Africa, ma non è così. L’economia stile dumba-nengue è una strategia inventata per sfuggire alle imposte e alla burocrazia. Quando il mio amico nigeriano è tornato a Maputo mi ha detto: “La mia sorpresa non derivava tanto da quello che avevo visto in Mozambico, quanto da quello che non notavo in Nigeria”.

Il principale alleato dei tiranni è la cultura dell’accettazione. Alcuni di voi sapranno che io sono stato uno degli autori dell’inno nazionale: ebbene, quando abbiamo sottoposto l’inno all’approvazione del Parlamento, non avremmo mai immaginato che alcuni deputati avrebbero storto la bocca dinanzi al passo che dice Nessun tiranno ci renderà schiavi. È ovvio che quel verso non si riferisce al presente, ma un inno nazionale non si cambia da un giorno all’altro, e chi può dire che in futuro non spunti un possibile tiranno nella storia del nostro Paese? Il modo migliore per prevenire questo rischio non è solo consolidare la democrazia in politica. È investire in una cultura vitale, in un progetto rivolto al futuro dei cittadini. Ciò di cui voglio parlare qui, in una Facoltà umanistica, è della dimensione culturale delle nostre piccole e grandi miserie.

Il ricorso alla cosiddetta “africanità” è una delle trappole più usate dai tiranni. Nel Malawi alcune donne sono state picchiate e i loro abiti strappati perché indossavano pantaloni: “Una donna con i pantaloni non è africana” è stata la motivazione addotta dagli aggressori. In nome dell’Africa sono state aggredite e uccise persone solo perché omosessuali; in nome della “purezza” africana si continua a impedire che le bambine proseguano gli studi, perché di sesso femminile. In nome dell’Africa si commettono i peggiori crimini contro l’Africa. È senz’altro vero che il nostro continente ha un passato e delle tradizioni molto antiche; ma ha anche un presente che richiede cambiamenti. Come tutti i continenti, del resto.

Le dinamiche evolutive si devono confrontare con un’identità fatta di passato e tradizione. Tutto questo si ricollega al “creare l’inevitabile” di cui sopra, quel meccanismo che ci porta ad assuefarci al male e a non vederlo più. L’assuefazione assume vari aspetti; sappiamo che la tal cosa è ingiusta, ma non facciamo niente, perché abbiamo paura, o perché pensiamo che non ci riguardi in prima persona, o magari perché facciamo i nostri interessi: meglio tacere e non inimicarsi nessuno. Meglio guadagnarsi qualche magro favore in cambio del nostro silenzio e della nostra complicità.

Questo “bendarsi gli occhi” è ben rappresentato da José Saramago nel romanzo che, non a caso, si intitola Cecità: siamo ciechi, non perché realmente affetti da una malattia, ma perché abbiamo smesso di vedere, abbiamo smesso di voler vedere. E non vediamo più neppure noi stessi. In fondo è questo il naturale epilogo di un processo di alienazione: si diventa ciechi. E chi non vede accetta che siano gli altri a dirgli com’è il mondo.
Ho abbozzato un elenco dei fenomeni sociali che sono diventati invisibili in Mozambico. Siccome è molto lungo, ne citerò solo alcuni.


La violenza contro i più deboli

La violenza è il primo di questi fenomeni. Diciamo così spesso di essere un popolo pacifico, ed è vero; ma tutti i popoli del mondo sono pacifici per natura: è la storia che fa la differenza. In questi termini, se è vero che siamo pacifici, è altrettanto vero che abbiamo fatto una guerra civile che ha ucciso più di un milione di persone. Quella guerra è finita nel 1992, e forse questa è la data più importante della nostra storia recente, dopo l’Indipendenza. Ma la fine dei conflitti armati non ha impedito che continuassero altre guerre minori, invisibili ma spietate.

Oggigiorno siamo una società in guerra contro se stessa, e le vittime di questa guerra sono sempre i più deboli: siamo in guerra contro le donne, i bambini, i vecchi, siamo in guerra contro i poveri, contro quelli che non hanno nessun potere. Siamo una società accecata dal Potere. Chi non ha il potere è come chi sta sul cassone del furgone: non esiste. Vediamo tutto secondo una prospettiva politica, ove il più piccolo dettaglio è un messaggio in codice, uno stabilirsi di gerarchie: chi arriva per primo alla riunione, dove si siede, chi non va alla cerimonia, quale macchina ha, da chi è accompagnato, sono tutti segnali di potere. Per strada a me capita di essere chiamato “signore”, “capo”, perché il colore della mia pelle mi conferisce potere. Un giorno volevo comprare una macchina, ne avevo scelta una, ma il venditore si è opposto, dicendo: “Lasci che gliene trovi io una adatta al suo status”.

Siamo in guerra con noi stessi e curiosamente le principali vittime di questa guerra sono una maggioranza: le donne. In Mozambico le donne sono circa un milione in più degli uomini. Ma gli uomini danno pochissima importanza a questo dato di fatto. Loro sono i capi, i padroni, e considerano le donne una loro proprietà privata. Queste, d’altra parte, ancora sembra che chiedano il permesso di esistere. La maggior parte delle donne che subiscono violenze da parte dei propri mariti sostiene che ciò sia lecito. Lo trovano normale, naturale. Essere aggredite fa parte del loro destino, della condizione femminile.

Vi cito tre episodi apparsi sulle pagine dei giornali nelle ultime settimane:

A Cabo Delgado diciassette uomini hanno violentato una donna che si era permessa di entrare nell’accampamento dove si stavano svolgendo i riti d’iniziazione. Da parte delle autorità c’è stato un inaccettabile silenzio, ed è stato necessario l’intervento delle ONG per avere delle risposte, peraltro minime.

A Manica due giovani hanno stuprato una donna al settimo mese di gravidanza.

A Tete, in pieno giorno, un uomo è piombato in casa, ha ucciso il figlio di due mesi e accoltellato la moglie che aveva rifiutato un rapporto sessuale con lui. Il giornalista che ha intervistato l’uomo sembrava quasi giustificarlo: “Doveva essere un bisogno proprio impellente, vero?”

Si parla spesso delle violenze che avvengono in strada, eppure quelle domestiche sono ancora più frequenti. È più probabile che una bambina venga aggredita e molestata dai propri familiari che non dagli estranei. E ciò non riguarda solo il Mozambico, ma il mondo intero. Le statistiche parlano chiaro: il 70% circa degli stupri avviene tra le mura domestiche. Tra le donne uccise, più del 60% sono assassinate da compagni o ex. In tutto il mondo, una donna su tre è stata aggredita o violentata. Dunque quello della violenza non è un problema prettamente mozambicano; tuttavia da noi acquista una gravità accentuata dal fatto che la violenza viene in qualche modo legittimata adducendo motivazioni cosiddette culturali. Come siamo bravi a banalizzare… È ancora diffusa l’idea secondo cui la donna è colpevole perché provocante, e ancora riteniamo che la denuncia spetti alle ONG, non a noi. Ci scrolliamo di dosso le responsabilità. Le donne pensano che il problema riguardi sempre gli altri; gli uomini, pur avendo madri, sorelle e figlie, non si ritengono chiamati in causa.

Un’altra guerra: le vedove

Vi consiglio di leggere “Le vedove della mia terra”, di Fabrício Sabat, per avere un’idea del crimine che quotidianamente viene commesso contro donne che vivono una fase così drammatica della loro vita. In tale momento di estrema fragilità vengono prese d’assalto dai loro stessi parenti, che tolgono loro i figli, i mezzi per vivere, la pace.

Le donne anziane

Accusate di stregoneria, dopo aver perso la possibilità di vivere un’infanzia e una giovinezza normali, si vedono sottrarre anche il dono di una vecchiaia serena da poter trascorrere in compagnia dei nipoti e dei ricordi. È assai lontana l’immagine dell’Africa che rispetta e venera gli anziani.

Guerra contro gay e lesbiche

Il Mozambico non è tra i Paesi africani più intolleranti; ce ne sono alcuni le cui leggi stabiliscono che basta avere propensioni omosessuali per essere colpevoli. Ad ogni modo anche nel nostro Paese c’è molta intolleranza.

Casi di malati di mente

Ci preoccupiamo tanto per le malattie virali che dimentichiamo che non è solo l’AIDS la piaga sociale africana: anche le malattie mentali lo sono, sebbene meno conclamate. Non credo che esistano statistiche che parlino di una prevalenza delle malattie mentali in Mozambico. Ma la media in Africa è pari al 14% della popolazione.

Gli albini

Vi racconto un episodio realmente accaduto che riguarda un muratore venuto a casa mia per un lavoro. Un giorno, una ragazza albina bussò alla mia porta per chiedere un po’ d’acqua. L’operaio, che chiamerò convenzionalmente Fabião, scese dalla scala su cui stava lavorando per dirmi: “È meglio non dargliene, o al massimo metterla in un bicchiere da gettare subito dopo”. Gli domandai il perché e quello rispose: “Quella è una tjidajna, non si sa mai…” e si mise a snocciolare le solite leggende e superstizioni contro gli albini. Concluse dicendo: “Fortunatamente nella mia famiglia non abbiamo casi simili”.

A distanza di anni, la settimana scorsa lo stesso Fabião mi ha telefonato per chiedermi se era possibile entrare senza invito all’esposizione “Figli della luna” allestita nella fortezza di Maputo: aveva sentito alla radio che ci sarebbe stata quella mostra sugli albini e ci voleva portare la figlia. “Sa, lei è albina”, aveva spiegato. Fabião non avrebbe mai immaginato di diventare padre di una tjidjana. Ma così è successo. E ora, per amore di questa bambina, vuole combattere insieme a lei quegli stessi pregiudizi che prima sosteneva. Ho chiamato Fabião e gli ho regalato due dischi per la bambina: uno di Salif Keita, l’altro del mozambicano Aly Fake[1]. Gli ho detto: “Questi sono i migliori bicchieri d’acqua. Rinfrescano l’anima”.

A volte pensiamo che tutte queste “diversità” appartengano agli altri. Invece la “diversità” è insita in ciascuno di noi. Un mozambicano su trentacinque è portatore del gene dell’albinismo. In altre parole, un mozambicano su trentacinque potrebbe generare figli albini. E la cosa sfugge a qualsiasi previsione.

Guerra contro i morti

Finora ho parlato di donne, bambini, anziani: insomma, persone vive. Purtroppo, però, la nostra società in guerra non risparmia ormai neanche i suoi stessi morti. Questo è il sintomo più grave della nostra “patologia sociale”: siamo capaci di maltrattare persino i defunti. Ciò che avviene nei cimiteri di questo Paese è un attentato contro i principi morali più basilari: le famiglie seppelliscono i loro cari, e sono costrette a togliere loro qualsiasi oggetto di valore, per paura che la tomba sia profanata e il cadavere spogliato. Persino i vasi dei fiori vengono scheggiati prima di deporli sulla tomba per evitare che qualcuno li rubi e li rivenda. Non contente di derubare i vivi, alcune gangs si sono specializzate nelle rapine contro i morti. Neanche dopo l’ultimo respiro possiamo considerarci liberi dai ladri.
Amici miei,
come ho già detto, siamo in guerra contro noi stessi. E questa guerra interna è composta da due tipi di violenza: la violenza di chi attacca, e la violenza di chi tace. Marthin Luther King disse: “quello che mi spaventa non è la violenza dei potenti, ma il silenzio degli onesti”.

La lista delle nostre guerre interne è molto lunga e comprende tanti ambiti. Gli esempi che ho scelto dimostrano che non siamo affatto la società pacifica che diciamo di essere. C’è tanta strada da fare prima di raggiungere questo obiettivo, un cammino innanzi tutto interiore che si realizzerà solo se voi saprete “vedere” e non accettare. Tutto quanto detto finora si può ben riassumere in due brevi testi di due autori tedeschi. Il primo è una parabola, e dice:

“Un giorno venne qualcuno e portò via il mio vicino, che era ebreo. Non essendo ebreo, non me ne curai. Il giorno dopo, vennero e portarono via un altro mio vicino, che era comunista. Non essendo comunista, non me ne curai. Il terzo giorno vennero e portarono via il mio vicino cattolico. Non essendo cattolico, non me ne curai. Il quarto giorno, vennero e portarono via me. Solo che ormai non c’era più nessuno che potesse difendermi”.

Il secondo testo è un vero e proprio appello in versi, che porta la firma del drammaturgo Bertolt Brecht:

“E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno, non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile”.

Amici cari,
questi nostri tempi sono in guerra anche contro i giovani. Si preannunciano giorni difficili, e non solo in Mozambico. Si preannuncia grigio il futuro, dove sembra esserci posto solo per alcuni. Il messaggio che passa è che conviene farci la guerra gli uni contro gli altri, per vedere chi è il più forte. Ma forse sarà possibile creare un altro futuro, più accogliente.

Sarete accerchiati. Da forze politiche che mirano solo al Potere individuale, e non alla risoluzione dei problemi che affliggono la società. Forze che si ricordano dei giovani solo quando c’è qualche voto da raccattare. Forze che magari parlano ai giovani, ma mai con i giovani.

E i giovani siete voi. Ma la gioventù è una condizione intrinseca, naturale: oltre che giovani, siate diversi. Portate in questo nostro tempo qualcosa di inatteso, di nuovo, di concreto per la nostra storia.

Si sta formando una nuova classe politica in Mozambico: la classe dei pappagalli, che ripetono pedissequamente i discorsi dei leader. La maggior parte sono giovani, ma solo anagraficamente; sono vecchi dentro, e parlano del futuro con ottimismo perché guardano al Paese come gli uccelli guardano alla propria gabbia. Ma il futuro di una nazione non si costruisce senza audacia, vitalità e infinito rispetto verso il prossimo.

Restiamo sempre in attesa che il governo prenda provvedimenti. Abbiamo paura di esporci, lo troviamo rischioso. Non ci attiviamo perché diciamo che mancano i mezzi, i soldi, l’autorizzazione da parte dei superiori. Ma esistono lezioni di vita che, nel loro piccolo, possono far breccia nel cuore e nella mente di qualcuno per sempre: quel maestro che lesse il tema sulle mani callose della madre non poteva immaginare che il suo gesto avrebbe lasciato un segno profondo nella vita di uno dei suoi alunni; il poeta William Henley non poteva immaginare che alcuni suoi versi sarebbero stati, a distanza di un secolo, il bastone in grado di sorreggere un uomo africano in un cammino che lo avrebbe portato a cambiare il destino di milioni di persone.

Facciamo la nostra parte, non perché si debbano trattare iniziative grandiose, ma perché, come dice la poesia, vogliamo essere padroni del nostro destino e timonieri della nostra anima universale”.

IN
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