mercoledì 7 giugno 2017

Maria Vittoria Querini: «Portogallo, il viaggio continua...»

Segnalando il Giorno del Portogallo, è con grande piacere che pubblichiamo questo bellissimo testo della nostra amica MARIA VITTORIA QUERINI:

Maria Vittoria Querini

PORTOGALLO
Il viaggio continua…

Porto,   barco rabelo sul fiume Douro



 
                                                                                                        Siediti al sole. Abdica
                                                                                                        e sii re di te stesso.
                                                                                                                                F. Pessoa

Il ricordo
Il ricordo più antico che ho del Portogallo è il giallo luminoso delle ginestre che una volta costeggiavano un tratto di strada nei pressi della frontiera di Badajoz. E poi si sa, la ginestra è simbolo di rimembranze.
Vidi per la prima volta il Tejo dal ponte 25 Abril, che allora si chiamava Salazar. Nessuno avrebbe potuto dirmi, a quel tempo, che il destino mi avrebbe concesso di attraversare il ponte infinite volte, tutte le volte che un’ansia tenace di conoscere questa terra avrebbe reso “viaggio” un’escursione, una gita, un breve tragitto e non soltanto un percorso che unisce due confini. Perché - e ce lo dice Antonio Tabucchi[1] - “Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.
I ricordi di quel primo viaggio sono vivi e presenti, ancora oggi che l’immagine del Portogallo si è fatta adulta. Sono tornata dopo molti anni e per molte volte. L'incontro con Lisbona è sempre stato dall'alto: il grande ponte, la statua di Cristo-Rei che “spalanca ai gabbiani e agli aerei la misericordia di cemento delle sue braccia”, la torre di Belém, i tetti rossi, le case bianche, la cupola di Estrela, l'enorme macchia verde di Monsanto li vedo ormai con gli occhi della memoria, non c'è più bisogno che guardi. Ma lo stupore di allora è rimasto intatto, il senso di un'infinita scoperta che cambia il modo di viaggiare. Saramago dice che il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori finiscono.
Lisbona è città che non si dimentica ma non si può raccontare, come saudade è parola che non si può tradurre. Nessuno dovrebbe mai chiedere che cosa ci sia da vedere in una città come questa. Basterebbe percorrere in un giorno di sole (e in Portogallo ce ne sono tanti) la rua de Ouro, la rua do Carmo fino al largo do Chiado, il reticolo di stradine in Alfama e basterebbe salire sull'electrico n. 28, tragitto Estrela-Graça, per avere già una prima risposta.
Le pietre del Terreiro do Paço ricoprono passi che non si sono perduti, neppure dopo che terremoto e maremoto, insieme, spazzarono via nel 1755 l'architettura ariosa di questa piazza, “la più nobile d’Europa”. L’ombra di un giardino vicino alla Sé Catedral invita ad una sosta prima di raggiungere, poco più in alto, il Miradouro di Santa Luzia. Proprio in questo belvedere (mai parola fu più calzante) sopravvive uno grandioso azulejo del Terreiro, così com'era prima che venisse distrutto. Il fiume che si vede da qui è già premessa di mare, Mar de Palha per via del colore. La luce è intensa e l’oceano “si sente” vicino.
Mi trovavo in Portogallo, dalle parti di Tomar, quando la notte tra il 24 e 25 agosto del 1988 scoppiò l'incendio che distrusse una parte della Baixa Pombalina di Lisbona. C'ero stata il giorno prima a passeggiare, tornai dopo alcuni giorni dall'incendio. Le macerie ancora sprigionavano fumo e con il fumo salivano al cielo i frammenti inceneriti delle stoffe preziose, dei ricami vetusti, degli spartiti gloriosi di Valentim de Carvalho, dei sigari della Casa Havanesa, insieme con il sospiro speziato della rua do Alecrim. Dall'alto dell'elevador de Santa Justa, un balcone provvidenziale salvato al disastro, guardavo una rua do Carmo sconvolta. Gli eleganti palazzi del settecento erano gabbie vuote, perfino i muri - i pochi rimasti in piedi - erano deformati per lo sforzo, quello estremo, di resistere alle fiamme che avevano dilatato di secoli lo spazio di un giorno. Era un commiato definitivo anche per me, che mentalmente ripetevo quell'unica parola, Adeus, apparsa a grandi lettere su un giornale di Lisbona.

Pessoa
Un giorno, mentre stavo per entrare al Teatro Sâo Carlos, guardando per caso verso il palazzo di fronte che chiude la piazza proprio come una quinta di teatro, mi fulminò qualcosa di familiare, una sagoma nota. Riconobbi all'istante la casa natale di Fernando Pessoa: perché, prima che l’inquietudine del poeta, mi ha sempre colpito l’infanzia dell’uomo. I primi anni in Sud Africa, la morte precoce dei fratelli e del padre, la pazzia della nonna Dionísia, quel trasbordare di casa in casa, tutto confluiva per me in un affresco di famiglia dal destino severo ma che, proprio per questo, ha guadagnato il mio affetto. I caffè che Pessoa frequentava a Lisbona ci sono ancora, certo un po’ trasformati. Passai un pomeriggio intero al Martinho da Arcada bevendo un caffè dopo l’altro.  Ma il vecchio locale con le pareti di legno, gli specchi e i tavoli di marmo non trasmetteva nulla, non aveva più incanto. Forse perché, lì fuori, le Ophélie Queiroz passavano veloci in minigonna e stivali da guerra. E nell'Arcada, con gli ultimi raggi di sole, entrò solo un sospiro di vento salmastro.
Il primo studioso straniero di Pessoa, il francese Pierre Hourcade, conobbe il poeta proprio al Martinho da Arcada nel 1930 e così lo ricorda: «Lo credevo piccolo, malinconico e scuro, soggetto al funesto fascino della saudade con cui si intossica tutta la sua razza, e d’improvviso mi imbatto nel più vivo degli sguardi, in un sorriso sicuro e malizioso, in un volto che trabocca da una vita segreta». E racconta come si sentisse affascinato dinanzi a lui: «Da quell’uomo malaticcio, i cui occhi erano protetti da spesse lenti, irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, di perfetta semplicità, di buonumore – sì, anche di buonumore, in quell’uomo disperato e torturato come nessun altro – e di una sorta di intensità febbrile che ardeva sotto la facciata apparente delle buone maniere»[2].
E proprio gli occhiali, oggetto negletto ma indispensabile per guardare la vita, o per vivere visivamente la propria morte, furono l’ultima angosciosa richiesta di Pessoa prima di morire: “Dammi i miei occhiali”. Quasi come avvenne per Goethe che, spegnendosi, chiedeva “Più luce…”.
Oggi Fernando António Nogueira Pessoa, dopo aver concesso per anni le sue spoglie al Prazeres (nome gentile per un cimitero), trova finalmente pace e risposte nella quiete del Mosteiro dos Jerónimos, sotto l'arco di un tempio. Come Corradino di Svevia.

Il mare e la terra
Ma Lisbona non è il Portogallo. Poco più a nord di Lisbona uno sperone di roccia (Cabo da Roca) segna l'estremo occidente d'Europa. Qui “la terra si congeda” come dice giustamente Saramago e, prima di lui, lo ricordò Camôes. Capitai lì, con propositi celebrativi, un primo dell'anno, con il cappello in mano come suol dirsi, ad esigere la mia ricompensa di stupore. Di fronte a queste grandiose solitudini di mare - succede anche a Cabo Espichel, a Cabo Sâo Vicente, soprattutto a Sagres – si animano le ombre dei primi navigatori portoghesi, in fila composta dietro l'Infante D. Henrique come nel Padrâo di Lisbona. Ma ora non ci sono più caravelle, solo qualche petroliera all'orizzonte e gli uccelli a nidificare nel vento.
Per chi ama i crostacei c’è il richiamo di Ericeira, una roccaforte assediata dall’oceano che ruggisce sotto i suoi balconi. A Ericeira c'era una casetta...e sicuramente c'è ancora, se il mare e le intemperie sono stati magnanimi. Una casa bianca, abbandonata, con finestre a misura di bambola. Una parte del muro di cinta nasconde un piccolo quintal, e lì dietro è facile immaginare un grappolo d'uva dorata, un rametto di rosmarino, un Sâo José de azulejo, come recita una canzone assai popolare. Sotto una finestra c'è una lapide a ricordo di una breve sosta che qui si concesse la Regina D. Amelia prima di imbarcarsi per l'esilio, il 5 ottobre del 1910. Ma oltre a una Regina, molti se ne sono andati da questa Europa “estrema”, spesso approdando sull’altra sponda, che è poi l’America. Destino amaro questo, narrato e tramandato dal canto portoghese per eccellenza (il fado) che per la sua grande interprete, Amalia Rodrigues, fu soprattutto “forma di vita”.
Torniamo alla terra. Per descrivere l’Alentejo in poche parole, quelle di José Saramago, che qui è nato, sono le migliori: «E' una terra tanto grande, a voler fare confronti, piena soprattutto di cocuzzoli, con un po' d'acqua torrentizia, ché quella del cielo può essere che manchi come avanzi, e verso il basso si stempera in pianura, levigata come la palma di una mano, anche se molte di esse, per destino, tendono col tempo a chiudersi, adattandosi all'impugnatura della zappa e della falce e del rastrello… Quanto paesaggio. Un uomo vi può girovagare tutta una vita e non trovarsi mai, se è nato smarrito»[3].
Io vi entrai per la prima volta in uno di quei giorni freddi nei quali ci si difende con alimenti vigorosi, come caldo e broa e vino rosso. Uno dei piatti alentejani è il maiale con le vongole, un insolito connubio, ma sarà perché, pur dalla terra, non ci si dimentichi del mare. Nel corso degli anni ho potuto conoscere quasi tutte le città dell'Alentejo, da Beja a Évora (Ebora Cerealis, tanto per essere chiari) visitata più volte, ad Alter do Châo, a Portalegre, ad Estremoz. Dalle vallate ogni tanto si erge una collina coperta di case bianche, come un'altana da cui spingere lontano lo sguardo. Una di queste è Monsaraz, altana tra le più belle, monumento e sintesi del talento architettonico degli alentejani.
Le città di Porto, Coimbra, Aveiro, Valença do Minho, Viana do Castelo, tutta la costa da Sines a Cabo Sâo Vicente, un po’ di Algarve (quello meno celebrato), la mitica Sagres, dove Henrique il Navigatore progettava di dominare l’Atlantico, meriterebbero una descrizione particolare; ma questa non è una guida, è solo volontà di fissare le immagini prima che si dissolvano col passare degli anni, o prima che le città e i luoghi cambino, per destino appunto.
Posso dire di conoscere il Portogallo meglio di altri paesi e di conoscere anche città appena sfiorate. Come Mértola, che una fittissima nebbia di gennaio sottrasse alla mia vista quasi per dispetto improvviso, e pensare che la monaca Mariana Alcoforado - che in verità guardava molto al di là della propria cella - riusciva a vederla dal convento di Beja. Come Sortelha, tenera e accogliente benché rivestita di granito. Come Vila Nova de Milfontes, con le sue spiagge dorate. Come Amarante, dal nome che evoca un tramonto, inserita lassù nel cuore verde del Portogallo. Come le città e i villaggi del Minho e del Douro “tra i cui vigneti l'Europa si è smarrita…”, così scrisse qualcuno che aveva capito.
La valle del Douro (coinvolgente scenario anche per “Vale Abraão” [4]) è infatti un cosmo primordiale dove il fiume - che ancor prima dell’uomo ha disegnato questa terra - lambisce i socalcos di uve pregiate mentre risale, sempre più selvaggio, verso la sua sorgente spagnola.

E’ vero, il viaggio non finisce mai. Percorro le vecchie strade sempre in attesa di nuove suggestioni, mentre gocce di saudade mi colpiscono a tradimento. Allora mi chiedo perché sia stato un medico alsaziano, e non un portoghese, ad inventare tre secoli fa la parola  “nostalgia”.




[1] A. TABUCCHI (1943-2012), scrittore e accademico italiano, considerato uno tra i maggiori conoscitori, critici e traduttori di Fernando Pessoa.
[2] A. CRESPO, La vita plurale di Fernando Pessoa, Ed. Pellicani 1997, p. 287
[3] J. SARAMAGO, Una terra chiamata Alentejo, (Levantado do châo), Ed.Bompiani 1992, p. 10
[4] Vale Abraão  (Valle di Abramo) è un romanzo della scrittrice portoghese Agustina Bessa-Luís da cui il regista Manoel de Oliveira ha tratto l’omonimo film.

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